Viene in mente Qualcosa, viene in mente Slow Music
Recensione a cura di Lanfranco Lucernari
Proprio l’altro giorno mi viene segnalato questo album da un giovane amico. Mi ha detto: “Lanfranco qui c’è Qualcosa da ascoltare”, ed io l’ho fatto.
Sebbene questo album già pulluli di parole, ho deciso di spenderne anch’io due, per descrivere ciò a cui ho assistito.
Cominciamo proprio da “Qualcosa” brano d’apertura del disco. Seguivo da un po’, a dire il vero, le orme di questo giovane cantautore marchigiano. Ascoltai “La casa senza scale” il suo primo lavoro, ma qui c’è ben altro. Lampante se non abbagliante la maturità finalmente conquistata. Le trame intricate di parole, a volte addirittura difficilmente comprensibili, lasciano spazio a un maggiore respiro fra un verso e l’altro, a una maggiore sicurezza e disinvoltura nel cantato, e ultimo ma non per importanza, a una struttura musicale più breve, semplice ma brillante. Le sonorità sono sempre le sue, un anello di congiunzione forse tra questo e l’altro album questa canzone, ma è palese come il ragazzo si sia messo in riga. Sa il fatto suo, e ce lo mette davanti agli occhi. Il testo, a tratti chiaro a tratti ermetico e profondo, ci sbatte in faccia la verità: “E l’amore non il sesso che la differenza fa!” Quel “qualcosa” è il filo conduttore che fa da guida ad ogni canzone di questo bell’album. Ma proseguiamo…
“La Lanterna Rossa”: bel brano, bell’intro, scorre via fluida, moderna nel testo, ma la base musicale rimane piuttosto classica.
Arriviamo a “Foulard”, decisamente il masterpiece, il singolo, il pezzo più bello del disco a mio avviso, posizionata saggiamente al numero tre. C’è delicatezza e infinita dolcezza. Sembrerebbe quasi una canzone del miglior Tom Waits, se non fosse che il cantato giunge alle orecchie come un canto fatato. Straordinaria l’interpretazione vocale. Se in “Ali al folle volo” sembrava di sentire l’aria fresca carezzarti il viso, qui quella stessa aria ci solleva in alto dolcemente, tiepida e poi calda, caldissima d’amore.
“L’insetto rovesciato” non è riuscita a sorprendermi. E’ una canzone carina e umoristica. Difficile da seguire il testo, come pure la metafora a cui vuole giungere. Importante la sperimentazione in chiave umoristica che questo cantautore può regalarci, ma qui ancora non c’è maturità. Buona la ritmica e l’insieme musicale.
In “Colori Nuovi” troviamo un ottimo sound e un gran tiro ritmico che ci fa domandare: dove vuole dirigersi? Poi inizia: “Ci stupiamo ancora di cose già fatte e già inventate…”. Parla dello stra-noto, dello stra-discusso. Immigrazione e speranza. Sentii un’intervistatrice fare riferimento alla droga e agli spacciatori…non c’entra niente questo brano con la droga, parla di tutt’altro. “Dico Amore e dici dove? E’ il terrore che ci muove. Ci sarà un posto migliore ma è altrove.” C’è tanta speranza, una visione nuova, un mondo che si unisce in un caleidoscopio immiscibile di colori nuovi. Molto bello.
“Il Viaggio” è un pezzo musicalmente molto interessante, ma mi ha lasciato con una gran confusione. Emerge la spiccata abilità di compositore sinfonico, e se è vero che qui esprime tutta la sua abilità musicale, la complessità risulta ai miei orecchi a tratti eccessiva. Sembra però, che A.P. lanci un sasso nello stagno. Un’ idea, una modalità che ci spiegherà meglio nel prossimo disco. Chissà come sarebbe stata questa canzone se fosse stata senza testo, mi chiedo.
Ne “Il Castello” spiccano le doti canore fino ad ora quasi timidamente nascoste. In un crescendo commovente viene espresso un messaggio semplice e importante: “Un castello non può crollare al primo tuono”. Questa semplicità vince sull’ascoltatore, un messaggio chiaro scagliato in alto nell’acme esplosivo del ritornello.
“Parole da ammaestrare” è un bel brano, maturo, furbo e ben costruito. Sembra emergere un po’ di morale malmostosa, ma il bellissimo cambio armonico dissonante ce lo fa subito perdonare.
“I Saltimbanchi” è una canzone importante, molto importante. Non parlo di musicalità né di innovazione, ma di sentimento e intimità. Qui il cantautore svela per davvero il suo animo complesso, un sentimento profondo e contrastante di gioia e malinconia.
“Balla Tu”…quanta roba! Ci provo e ci riprovo a ballare su questo pezzo d’ ottone. Si può fare. Turbinano in mente tante cose, Paolo Conte per primo, poi c’è jazz, fox-trot e tanto altro, perfino il cantato femminile in inglese. Sembrava aver detto addio a quel sound classico e d’altra epoca e invece no: A.P. riprende quelle sonorità e quei ritmi e li getta in pasto alla sua vorace e insaziabile voglia di sperimentazione. L’eccesso e il barocchismo, unici veri “nei” di questo cantautore, emergono nel fraseggio centrale di pianoforte, che sembra un po’ forzatamente infilato nel ritmo principale della canzone. Molto progressive il tentativo, ma non mi ha convinto del tutto.
“Una Canzone facile”: che dire? Viene dichiarato fin dall’inizio. Bellissimo e magistrale lo spazio lasciato al violino degno dei grandi compositori sinfonici. All’interno di un quadro armonico semplice, A.P. mostra con chiarezza le sue doti vocali ritmiche. Si può suonare la batteria con la voce, diceva Mick Jagger. Qui i tempi d’ascolto del testo, sono egregiamente rispettati. Nella libertà che solo una struttura semplice sa dare, tutte le doti del cantautore vengono finalmente fuori. Una canzone non eccezionale, ma davvero bella. Un biglietto da visita, un invito futuro a vedere cos’altro ci sarà da aspettarsi da questo ragazzo.
Poi inizia “La Sera”, ma sono i Velvet Underground questi? Ah no, ecco la voce…ed ecco il piano. E’ proprio Alessandro Pellegrini. Esce la parola “preghiera” e salta fuori in maniera forse scontata. Potevamo aspettarcelo, l’uso dell’armonium ha questa funzione, dunque non ci sorprende. Una musica che si presta molto bene al verso semplice ripetuto ossessivamente, come un mantra, una preghiera appunto, dunque non c’era bisogno di specificare a mio avviso, ma non voglio tediare il lettore con questi miei puntigli stilistici. Esce un fraseggio di piano dinoccolato e fuori tempo che mi fa domandare Perché? Non poteva evitarlo? No. La sperimentazione e l’avanguardia esigono errori. Senza errori si rimani fermi. Errare è viaggiare. Questo brano a cui forse rimane difficile abbandonarsi del tutto, non è sbagliato. Qui c’è ben altro, molto più che un ultimo brano di saluto. C’è un accenno di elettronica, di sonorità ossessive del miglior Battiato, di trance, di spiritualità e modernità. Un esperimento venuto così, che certamente guadagna la sufficienza, ma che ci dice molto di più su quello che ci aspetterà nel prossimo album, o perlomeno questo è ciò che mi auguro.
L’ultimo brano è una ghost track, un dolce fraseggio di piano. Solo musica, non c’è più voce. Questo saluto non è per noi. Forse, dico forse, è un saluto muto, ma colmo di anima, alla persona a cui è dedicato questo disco. Chapeau.
Considerazioni: abbiamo di fronte un nuovo cantautore che ci promette di farcene vedere delle belle. Solido come un Castello, non un artista da Talent ad obsolescenza programmata. Possiamo aspettarci di tutto, e anche se mi auguro di ascoltare presto il prossimo lavoro artistico, auspico che questo bellissimo disco diventi una delle pietre miliari della Slow Music. Che non significa musica lenta sia chiaro, in questo album le canzoni sono inaspettatamente e piacevolmente brevi. Slow Music è un modo nuovo di fare musica, che rispetta i tempi artistici di composizione di cui l’anima ha bisogno per potersi esprimere davvero. Così e solo così, sarà possibile tornare ad ascoltare vera musica. Alessandro Pellegrini l’ha fatto e mi auguro che continui a farlo, per il bene di tutti.